Scanio Liberetti è un uomo incompleto: lo si capisce già dal nome, monco di quella ‘A’ che avrebbe smussato l’eccentricità della sua presenza. Ingegnere mancato, vive in appartamento quasi donatogli da una ricca proprietaria, riparando cose e inventandone altre.

Pigro, ma instancabile quando una lampadina dentro la sua testa si accende, conduce un’esistenza impalpabile finché non incontra Helena, giovane ricercatrice di origine inglese arrivata in Italia per lavorare come esperta di risorse umane. The Repairman è arrivato nelle sale (pochissime, purtroppo) come un fulmine a ciel sereno dopo un passaggio senza premi al Torino Film Festival e al Raindance di Londra. La storia sarebbe andata in modo totalmente diverso se il film fosse stato prodotto all’estero, diretto da un regista straniero e interpretato da attori americani, inglesi o altro, fate voi. Sì perché quel titolo esterofilo tradisce l’opera nel momento in cui introduce ad una storia molto italiana, nella quale un personaggio messo ai margini della società, impossibilitato addirittura a definirsi dipendente della società presso cui lavora, cerca in tutti i modi di riabilitarsi da un status di apparente inconsistenza e di porre la sua impronta nel mondo. Superato questo cortocircuito, cosa resta? Un’opera prima di grande spessore che si interroga sul ruolo degli outsiders senza pietismi ma con uno sguardo carico di humour britannico (non a caso il regista Paolo Mitton vive e lavora a Londra), un film atipico che potremmo definire come la via italiana e dinamica al mondo dei morti-viventi costruito da Roy Andersson nella sua trilogia dell’umanità, una storia da realismo magico dove elementi apparentemente inutili, come un’anatra in volo, diventano parti necessarie nella costruzione poetica. Anche le situazioni più banali, come la cena con gli amici ‘affermati’, acquistano consistenza narrativa grazie ad una sceneggiatura votata al ‘fare cinema’: la sequenza in cui Zoe viene continuamente interrotta nel suo racconto radical chic di un viaggio in Africa è una lezione di tempi comici che, al tempo stesso, riesce a raccontarci tutto degli interlocutori. The Repairman non ha avuto una distribuzione (un solo cinema in tutta la Toscana) ma probabilmente avrebbe trovato posto nei multiplex se fosse venuto da un qualche paese anglofono e sarebbe stato giudicato per quello che è, ovvero un film divertente, non presuntuoso, con una regia di qualità, a tratti un po’ furbetto ma senza la malizia di chi sa di dover coprire delle lacune. D’altronde si può ancora fare bel cinema di genere, basta dargli un po’ di credito, anche se per il momento non si vuole fare credere al pubblico che in Italia si possa fare una commedia senza interpellare alcun comico di Zelig.

Michele Galardini su Mediacritica